Biografia

Jean Starobinski. Critico letterario (Ginevra 1920 - Morges 2019). Psichiatra e professore di storia delle idee e di letteratura francese nell'università di Ginevra (1958-85), s'inserisce in quella illustre tradizione di studiosi svizzeri (da A. Béguin e M. Raymond a J. Rousset) che ha contribuito, in modo determinante, al rinnovamento della critica letteraria. Fin dalle prime opere (Montesquieu par lui-même, 1953, trad. it. 1989; Jean-Jacques Rousseau: la transparence et l'obstacle, 1958; trad. it. 1982), fulcro del suo metodo, che si avvale liberamente di più sistemi d'indagine, è lo studio dei rapporti fra lettura critica e testo letterario, tra ermeneutica e forme, tra figure e miti. [www.treccani.it]

Sporgendosi sul versante della filosofia, della psicoanalisi, della letteratura e della poesia, e sapendosi inoltrare anche nei territori più impervi ed enigmatici dell’arte, Starobinski è riuscito a inoltrarsi nel territorio più insondabile e più oscuro dei sentimenti umani e a restituirci il senso vivo e prezioso della cultura che appare in tutta la sua evidenza quando riesce a sbrogliare anche le matasse più intricate. [...]
L’essere umano e il mondo non sono macchine, non sono per nulla il luogo di una nostra assoluta padronanza. Di fronte alla visione meccanica delle cose e di noi stessi rischiamo sempre d’inciampare nella bellezza, nell’ulteriorità di qualcosa che dentro e fuori di noi ci colpisce per la sua cocciuta impertinenza. Un inciampo fortunato che ci apre all’imprevedibilità del reale. Ecco perché Starobinski non ha mai smesso di dirci che solo attraverso una modificazione del nostro sguardo, solo rendendo più acute le percezioni del corpo e della nostra mente, possiamo trasformare la radice della vita sociale e politica. [Stefania Tarantino, il manifesto 08/03/2019]

 

Jean Starobinski, "L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud", Einaudi, 1975

«Ciò che è nascosto, l’occulto, affascina. “Perché Poppea pensò di nascondere le bellezze del suo volto, se non per renderle più preziose ai suoi amanti?” (Montaigne). Nella dissimulazione e nell’assenza, una forza strana costringe la mente a volgersi verso l’inaccessibile e a sacrificare per la sua conquista tutto quanto essa possiede. Opere realistiche nel meccanismo del desiderio, le fiabe non conoscono che tesori se non nascosti, rinchiusi in qualche profondità oscura: se devono appartenere a qualcuno, saranno di colui che avrà rinunciato a tutto, persino alla speranza di venirne in possesso. Il carattere proprio del mistero è quello di vincolarci a considerare vacuo e fuori posto tutto ciò che non ne favorisca l’accesso. L’ombra ha certo il potere di farci abbandonare tutte le prede, per il solo fatto che è ombra e che suscita in noi un’attesa senza nome. La fascinazione ci persuade a liberarci di tutto, persino del pensiero della nostra vita, pur di appartenerle. Essa ci spoglia con la sola promessa di colmarci, e se, all’inizio, noi abbiamo potuto sognare di impadronirci dell’occulto, subito le parti si rovesciano: eccoci divenuti passivi e paralizzati, dopo aver rinunciato alla nostra volontà per lasciarci possedere dall’imperioso richiamo dell’assenza.
I moralisti, si capisce, hanno giudicato un tale sacrificio scandaloso. Come? Perdere tutto quanto si possiede per una chimera! Lasciarsi portar via il presente del mondo per non vivere che in un’estasi annichilatrice! Spezzare la bellezza visibile per l’amore di ciò che non è! Alla passione per l’occulto non sono mancate critiche, che ne censuravano ora l’attrazione del diavolo, ora quella di Dio. Meglio però spiegare questa passione senza considerarla troppo presto come una mistificazione.
Il nascosto è l’altra faccia di una presenza. Il potere dell’assenza, qualora tentassimo di descriverlo, ci riconduce al potere che detengono, in maniera abbastanza disuguale, certi oggetti reali, i quali designano, dietro di loro, uno spazio magico, sono l’indizio di qualcosa che non sono. Ostacolo e segno interposto, il velo di Poppea genera una perfezione sottratta che, con la sua stessa fuga, esige di essere riafferrata dal nostro desiderio» (Il velo di Poppea, pp. 5-6).

 

Jean Starobinski, "La trasparenza e l’ostacolo. Saggio su Jean-Jacques Rousseau", il Mulino, 1982

«È Rousseau a dirlo: quando è venuta alla luce la sua vera vocazione, lo slancio decisivo gli è venuto dalla “indignazione della virtù”. Tale collera, ci assicura, si è per lui “sostituita ad Apollo”. Dunque non si tratta della ispirazione “divina” analoga a quella dei poeti lirici, bensì di un impulso che vi si sostituisce, compensandone la carenza: l’impulso della collera di fronte agli scandali del mondo così com’è. […] Il gesto inaugurale dell’accusa è un enunciato di idee, un giudizio e un atto: istituisce un rapporto drammatico fra lo scrittore e i suoi contemporanei, notifica ai suoi destinatari il loro stato di sventura e di colpevolezza. I lettori si sono sentiti interpellati, hanno reagito e, risentendo di questa reazione che gli è stata significata in tutti i modi possibili (lettere, opuscoli, visite, condanne private o pubbliche, ecc.) Rousseau ha proseguito la sua opera. [...] Per uno studio che ponga attenzione all’opera letteraria in quanto azione, l’esperienza proposta da Rousseau è esemplare: che cosa è potuto scaturire – per lui e per gli altri – da un rapporto col pubblico che ha avuto inizio come una aggressione giustiziera?» (Accusare e sedurre, pp. 9-15).

 

Jean Starobinski, "A piene mani. Dono fastoso e dono perverso", Einaudi, 1995

«Il sapore, squisito, ha sorpreso la bocca. Il braccio si protende; la mano che ha colto il frutto sta già offrendolo; le dita tengono la mela ma stanno per aprirsi. Uno dei disegni più belli che esistano, l’Eva del Correggio, raffigura questo gesto. Il miracolo, in questo disegno, è che l’oggetto offerto non è distinto dalla bocca sorridente, dalla carne nuda, dal braccio che porge il dono. Il frutto e la persona appartengono così profondamente l’uno all’altra da formare un solo dono. La delizia illumina il viso della Donna, che ha gustato la mela e che offre di condividerla. Non ha vergogna, lei, non sa ancora che, donando, si dà. Il gesto così disegnato, nella sua imminenza, nella sua dolcezza insinuante, vince, immediatamente. Accettare, vorrà dire non smettere più di desiderare.
Questa è una delle immagini forti del dono. Non la sola. Nelle pagine di questo libro, interrogherò testi e immagini che mettono in scena l’atto del donare» (In limine, p. 3).

 

Jean Starobinski, "Azione e reazione. Vita e avventure di una coppia", Einaudi, 2001

«Devo riconoscere che la mia curiosità un po’ voyeuristica per la vita intima della coppia “azione/reazione” viene dal fatto che l’ho incontrata in mille posti, nei luoghi più disparati. È diventata così una conoscenza familiare. A partire dal medioevo abita infatti i trattati di fisica. Più tardi si è trasferita sulla nave dei geometri armata di equazioni. Ha navigato sotto la bandiera del meccanicismo, ma la si è vista riapparire tra i fedeli servitori del vitalismo.
Molto presto la parola “reazione” ha avuto delle avventure da sola. Proprio nel vitalismo la “reazione” ha offerto alla vita il modo di resistere alla morte. In seguito, nel corpo vivente, si è accontentata di essere la risposta allo stimolo tramite l’innervazione motrice. Nel vocabolario politico-storico le parole “azione e reazione” inizialmente sono state invocate per portare acqua al mulino di una storia ciclica in cui le rivoluzioni si scrivono al plurale. Ma in seguito, quando alla storia è stato assegnato il fine del perfezionamento, la Rivoluzione e il Progresso hanno scelto la Reazione come avversario: le assemblee politiche, i giornali, i volantini, la lingua di tutti i giorni lo hanno manifesttao chiaramente. Nel neologismo “interazione”, le nostre due parole hanno ricominciato a vivere più strettamente in comune. Poi è venuta la discendenza: poco più di un secolo fa la fata buona “abreazione” si è chinata sulla culla della psicoanalisi. D’altra parte (piuttosto tardi, verso il1890) si decise di chiamare “reazionali” le malattie dipendenti da circostanze esterne e non da un determinismo “endogeno”» (Prefazione, p. 5).

 

Jean Starobinski, "L’inchiostro della malinconia", Einaudi, 2014

«Ai confini del silenzio, col più flebile dei soffi, la malinconia mormora: “Tutto è vuoto! Tutto è vanità”. Il mondo è inanimato, colpito a morte, aspirato dal nulla. Ciò che si possedeva un tempo è andato perduto. Ciò che si era sperato non è avvenuto. Lo spazio è disabitato. Ovunque regna il deserto infecondo. E se uno spirito aleggia al di sopra di questa distesa, è quello della constatazione desolata, la nuvola nera della sterilità, dalla quale mai scoccherà il lampo di un fiat lux. Di ciò che la coscienza aveva contenuto cosa resta? Appena qualche ombra. E forse le vestigia dei limiti che facevano della coscienza un ricettacolo, un contenitore – come le mura rase al suolo di una città devastata. Ma, per il malinconico, la vastità, nata dalla devastazione, si oblitera a sua volta. E il vuoto si fa più esiguo della più angusta segreta» (Nel tuo Nulla spero si trovare il Tutto, p. 463).

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Opere

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    L' occhio vivente Jean Starobinski

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    1789 Jean Starobinski

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    Ritratto dell'artista da saltimbanco Jean Starobinski

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Saggi, introduzioni ecc.

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